Aggiornate le Raccomandazioni per la gestione ottimale della fibrillazione atriale
Le linee guida ACC/AHA/ACCP/HRS 2023 per la diagnosi e la gestione della fibrillazione atriale (FA) sono state recentemente pubblicate sul Journal of American College of Cardiology e su Circulation. Il documento presenta importanti cambiamenti, incluso un nuovo modo di classificare la fibrillazione atriale. La classificazione precedente era in gran parte basata sulla durata dell’aritmia e tendeva a enfatizzare interventi terapeutici specifici piuttosto che un approccio gestionale più olistico e multidisciplinare, mentre la nuova classificazione proposta, utilizzando quattro stadi, riconosce la fibrillazione atriale come un continuum della malattia che richiede una varietà di strategie in diverse fasi, dalla prevenzione, alla modifica dello stile di vita e dei fattori di rischio, allo screening e alla terapia.

La nuova classificazione: Stadio 1: rischio di FA per la presenza di fattori di rischio.
Stadio 2: pre-AF, con evidenza di reperti strutturali o elettrici predisponenti alla FA.
Stadio 3: FA, anche parossistica (3A), persistente (3B), di lunga durata persistente (3C), ablazione riuscita della FA (3D).
Stadio 4: FA permanente

Il documento aggiornato riconosce la modifica dello stile di vita e dei fattori di rischio come un pilastro della gestione della FA e offre raccomandazioni più prescrittive, inclusa la gestione dell'obesità, della perdita di peso, dell’attività fisica, della cessazione del fumo, della moderazione dell’alcol, dell’ipertensione e di altre comorbilità. "Non dovremmo solo dire ai pazienti che devono essere in buona salute, il che non significa molto per un paziente, dobbiamo dire loro esattamente cosa devono fare. Ad esempio, quanto esercizio fisico fare o quanto peso perdere per avere un vantaggio," ha specificato Jose Joglar, professore di elettrofisiologia cardiaca presso l'UT Southwestern Medical Center di Dallas, Texas, e presidente del comitato di scrittura.
La buona notizia, ha aggiunto, è la riabilitazione del caffè, che ha avuto una “cattiva reputazione”, ma che, in base agli ultimi dati, non sembra esacerbare la fibrillazione atriale.
Le nuove linee guida continuano a sostenere l’uso del punteggio CHA2DS2-VASc come predittore di scelta per determinare il rischio di ictus, ma consentono anche la flessibilità di utilizzare altri calcolatori quando esiste incertezza o quando altri fattori di rischio, come la malattia renale, necessitano di essere inclusi. Con l’emergere di prove “nuove e coerenti”, le linee guida sottolineano anche l’importanza della gestione precoce e continua dei pazienti con fibrillazione atriale con particolare attenzione al mantenimento del ritmo sinusale e alla minimizzazione del carico di fibrillazione atriale. L’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale ha un’indicazione di Classe 1 come terapia di prima linea in pazienti selezionati, compresi quelli con insufficienza cardiaca con frazione di eiezione ridotta. Ciò si basa su recenti studi randomizzati che hanno dimostrato che l'ablazione transcatetere è "superiore alla terapia farmacologica" per il controllo del ritmo in pazienti opportunamente selezionati.
Il documento inoltre aggiorna la classe di raccomandazione per i dispositivi di occlusione dell’appendice atriale sinistra a 2a, rispetto all’AF Focused Update del 2019, per l’uso di questi dispositivi in pazienti con controindicazioni a lungo termine all’anticoagulazione. Fornisce inoltre raccomandazioni aggiornate per la fibrillazione atriale rilevata tramite dispositivi impiantabili e indossabili, nonché raccomandazioni per i pazienti con fibrillazione atriale identificata durante malattie mediche o interventi chirurgici.

Joglar JA, et al.2023 ACC/AHA/ACCP/HRS Guideline for the Diagnosis and Management of Atrial Fibrillation: A Report of the American College of Cardiology/American Heart Association Joint Committee on Clinical Practice Guidelines. Developed in Collaboration With and Endorsed by the American College of Clinical Pharmacy and the Heart Rhythm Society. Circulation. 2023;148:e00–e00. DOI: 10.1161/CIR.0000000000001193
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Consumo di sale e diabete mellito di tipo 2, il rischio è confermato
È recente la conferma che la gestione dell'assunzione di sale può prevenire il diabete di tipo 2. L'associazione è mediata dal BMI, dal rapporto vita/fianchi e dalla proteina C-reattiva. Lo studio è stato pubblicato su Mayo Clinic Proceedings. "Sappiamo già che limitare il sale può ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e ipertensione, ma questo studio mostra per la prima volta che togliere la saliera dal tavolo può aiutare a prevenire anche il diabete di tipo 2",ha affermato Lu Qi, professore presso la Tulane University School of Public Health and Tropical Medicine.
Nello studio, gli autori hanno valutato 402.982 partecipanti di età compresa tra 37 e 73 anni provenienti dalla Biobanca del Regno Unito. Alla coorte è stato somministrato un questionario al basale chiedendo quanto spesso aggiungevano sale agli alimenti, con le opzioni “mai o raramente”, “a volte”, “di solito” e “sempre”.
Complessivamente, sono stati documentati 13.120 episodi di diabete di tipo 2 durante un follow-up mediano di 11.9 anni. Rispetto a coloro che non aggiungevano mai o raramente sale al cibo, gli HR aggiustati erano:
• 1.11 per coloro che a volte aggiungevano sale;
• 1.18 per coloro che abitualmente aggiungevano sale;
• 1.28 per coloro che hanno sempre aggiunto sale.
Qi e colleghi non hanno trovato alcun legame significativo tra la frequenza del consumo di sale e l’ipertensione o altri fattori di rischio per il diabete di tipo 2.
Tuttavia, BMI, rapporto vita-fianchi e proteina C-reattiva hanno mediato l'associazione osservata rispettivamente del 33.8%, 39.9% e 8.6%.
L’effetto mediato dal BMI è stato determinato dalla massa grassa corporea piuttosto che dalla massa magra, hanno detto i ricercatori.
Lo studio presentava diverse limitazioni: ad esempio, non si poteva escludere che un’elevata frequenza di assunzione di sale fosse un possibile indicatore di uno stile di vita non salutare e che le autovalutazioni sulla frequenza del consumo di sale potrebbero essere state vulnerabili a bias.
Il consumo di sale può portare le persone a mangiare porzioni più grandi di cibo, aumentando così il rischio di fattori come l'infiammazione e l'obesità. In definitiva, il passaggio a condimenti a basso contenuto di sodio "non è un cambiamento difficile da apportare, ma potrebbe avere un impatto enorme sulla salute", ha affermato Qi.

Xuan Wang, et al. Dietary Sodium Intake and Risk of Incident Type 2 Diabetes. Mayo Clinic Proceedings DOI:https://doi.org/10.1016/j.mayocp.2023.02.029
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Linee Guida sulla Valutazione Multidimensionale dell’anziano fragile
Le Linee Guida sulla Valutazione Multidimensionale della persona anziana sono state pubblicate lo scorso 16 novembre sul Sistema Nazionale delle Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità. Un passaggio epocale, promosso dalla Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG) e della Società Italiana di Geriatria Ospedale e Territorio (SIGOT), con il supporto metodologico dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e con il contributo di altre 25 società scientifiche. Le Linee Guida orienteranno a un approccio globale sulle condizioni del paziente anziano, con diagnosi più rapide e la definizione di trattamenti e assistenza appropriati. Sono consultabili nel sito dell’Istituto Superiore di Sanità nella Sezione Sistema Nazionale Linee Guida. Sono state presentate per la prima volta dopo la pubblicazione al 40° Congresso Nazionale SIMG.

Gli anziani rappresentano una popolazione eterogenea in termini di stato di salute, ma anche funzionale, cognitivo, psico-sociale ed economico. La Valutazione Multidimensionale studia tutti questi domini (o “dimensioni”) in maniera integrata, con strumenti e scale diagnostiche basati su parametri quantificabili numericamente, e sviluppa un piano di cura personalizzato sulle reali necessità di ciascun individuo. I vantaggi sono la riduzione delle ri-ospedalizzazioni e dei trasferimenti in casa di riposo (le istituzionalizzazioni); una più agevole gestione dell’anziano a domicilio; la riduzione dei ricoveri non appropriati; una migliore qualità di cura e assistenza.
“La popolazione fragile non è rappresentata solo da anziani o pazienti con comorbidità, ma da un’ampia classe di assistiti che il Medico di Medicina Generale può aiutare a identificare – sottolinea Pierangelo Lora-Aprile, Segretario Scientifico SIMG nonché referente SIMG per le Linee Guida - Sono due gli strumenti di Valutazione Multidimensionale il cui utilizzo è suggerito dalle Linee Guida per predire la mortalità (a breve, medio, lungo termine) dei pazienti anziani che afferiscono agli studi del Medico di medicina generale: il Multidimensional Prognostic Index (MPI) e il Resident Assessment Instrument for Home Care (RAI-HC). Nel corso degli anni, la SIMG ha realizzato uno strumento utile a identificare e a stratificare lo stato di fragilità del paziente.
Il Primary Care Frailty Index (PC-FI) è uno strumento che in modo automatico (a partire dai dati inseriti nella cartella clinica) identifica l’assistito fragile e il relativo score di gravità. Il PC-FI non è uno strumento di Valutazione Multidimensionale tuttavia permette di stabilire una priorità di intervento. Il Brief-MPI (forma breve validata del MPI) è invece uno strumento che è stato validato per la Valutazione Multidimensionale in Primary Care che coniuga il rigore scientifico alla semplicità di utilizzo al breve tempo di compilazione. Si delinea così un possibile percorso per l’assistito che accede all’ambulatorio del Medico di Famiglia: uno sguardo al “cruscotto” della cartella clinica e immediatamente l’identificazione delle persone che debbono essere sottoposte a Valutazione Multidimensionale con priorità al fine di elaborare un Piano Personalizzato di Cura da monitorare nel tempo”.
“I Medici di Medicina Generale sono i primi che sul territorio incontrano i pazienti fragili – evidenzia il Prof. Claudio Cricelli, Past President SIMG – Proprio il Medico di famiglia può per primo capire l’entità della fragilità grazie agli strumenti già realizzati da SIMG in questi anni che adesso sono stati implementati in questo sistema. È la prima volta che si fa un lavoro così ampio ed eterogeneo: non ci si rivolge a una patologia o a un organo specifico, ma si analizza complessivamente la situazione degli individui, definendo raccomandazioni chiare che devono partire dalle cure primarie”.
“La Valutazione Multidimensionale è essenziale per promuovere la continuità delle cure e dell’assistenza di cui gli anziani hanno bisogno” – sottolinea il Prof. Alberto Pilotto, Past President SIGOT e membro del Comitato Tecnico-Scientifico della Linea Guida. “Nella attuale realtà demografica nazionale si rende necessaria oggi la presenza di percorsi di cura e assistenza dedicati alla persona anziana che ne garantiscano una omogenea e condivisa presa in carico assistenziale tra ospedale e territorio. In altri termini, il paziente anziano richiede una continuità delle cure prestate in ospedale durante la fase acuta di malattia e le successive fasi altrettanto importanti di post-acuzie e recupero funzionale, per evitare le conseguenze della ri-ospedalizzazione e della istituzionalizzazione in RSA. La Linea Guida Nazionale sulla Valutazione Multidimensionale della Persona Anziana, frutto di un lavoro scientifico durato due anni con 50 esperti di diverse discipline e con il rigore metodologico garantito dai colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, è in grado oggi di fornire indicazioni sul metodo e gli strumenti operativi più appropriati, efficaci ed efficienti per attuare un nuovo modello organizzativo del sistema socio-sanitario pubblico come previsto dalla recente legge in tema di politiche in favore delle persone anziane”.
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Gestione del morbo di Crohn: possibileruolo dei biomarmarker
Il monitoraggio ripetuto con l'endoscopia consente una valutazione obiettiva dell'infiammazione e della guarigione della mucosa rispetto ai soli sintomi. Tuttavia, fare affidamento esclusivamente sull’endoscopia per guidare la gestione è un approccio “limitato dai costi e dall’utilizzo delle risorse, dall’invasività e dalla ridotta accettabilità da parte del paziente”, hanno scritto gli autori delle linee guida, che sono state pubblicate da Gastroenterology.
"L'uso dei biomarcatori non è più considerato sperimentale e dovrebbe essere parte integrante della cura e del monitoraggio delle IBD (malattie infiammatorie croniche intestinali) ", ha affermato Ashwin Ananthakrishnan, gastroenterologo del Massachusetts General Hospital di Boston e primo autore delle linee guida. “Abbiamo bisogno di ulteriori studi per definire il loro uso ottimale, ma a ci sono ora abbondanti prove che i biomarcatori forniscono un significativo beneficio incrementale rispetto ai soli sintomi nella valutazione dello stato di un paziente”.
Utilizzando evidenze provenienti da studi randomizzati controllati e studi osservazionali e applicandole a scenari clinici comuni, sono disponibili raccomandazioni sull’uso dei biomarcatori in pazienti con malattia accertata e diagnosticata che erano asintomatici, sintomatici o in remissione indotta chirurgicamente. Tali raccomandazioni, presentate in uno strumento dettagliato di supporto alle decisioni cliniche, includono quanto segue:
• pazienti asintomatici: controllare CRP (proteina C reattiva) e FCP (calprotectina fecale) ogni 6-12 mesi. I pazienti con livelli normali e che hanno avuto una remissione confermata endoscopicamente negli ultimi 3 anni senza alcun successivo cambiamento nei sintomi o nel trattamento, non necessitano di essere sottoposti a endoscopia e possono essere seguiti solo con biomarcatori e controlli clinici. Se CRP o FCP sono elevati (definiti come CRP superiore a 5 mg/L, FCP superiore a 150 mcg/g), va presa in considerazione la ripetizione dei biomarcatori e/o l'esecuzione di una valutazione endoscopica dell'attività della malattia prima di un aggiustamemento del trattamento.
• pazienti lievemente sintomatici: il ruolo del test dei biomarcatori può essere limitato e potrebbe essere necessaria una valutazione endoscopica o radiologica per valutare l'infiammazione attiva, dato il tasso più elevato di risultati falsi positivi e falsi negativi con i biomarcatori in questa popolazione.
• pazienti con sintomi più gravi: in determinate situazioni è possibile utilizzare livelli elevati di CRP o FCP per guidare l'aggiustamento del trattamento senza conferma endoscopica. I livelli normali possono essere falsi negativi e devono essere confermati mediante valutazione endoscopica dell'attività della malattia.
• pazienti in remissione indotta chirurgicamente con una bassa probabilità di recidiva: livelli di FCP inferiori a 50 mcg/g possono essere utilizzati al posto della valutazione endoscopica di routine entro il primo anno dopo l'intervento. Livelli più elevati di FCP dovrebbero richiedere una valutazione endoscopica.
• pazienti in remissione indotta chirurgicamente con un alto rischio di recidiva: non fare affidamento sui biomarcatori ma eseguire valutazione endoscopica.
Tutte le raccomandazioni sono state ritenute di certezza da bassa a moderata sulla base dei risultati di studi clinici randomizzati e studi osservazionali che hanno utilizzato questi biomarcatori in pazienti con malattia di Crohn. Citando una carenza di prove di qualità, gli autori delle linee guida hanno stabilito di non poter formulare raccomandazioni sull’uso di un terzo biomarcatore, l’indice di guarigione endoscopico (EHI).
Anche le recenti linee guida di pratica clinica AGA sul ruolo dei biomarcatori nella colite ulcerosa, pubblicate a marzo, supportano un forte ruolo dei biomarcatori fecali ed ematici, determinando quando questi possono essere utilizzati per evitare valutazioni endoscopiche non necessarie. Tuttavia, nei pazienti con malattia di Crohn, i sintomi non si correlano bene con l’attività endoscopica. Di conseguenza, “la performance dei biomarcatori era accettabile solo in individui asintomatici che avevano recentemente confermato la remissione endoscopica; in quelli senza una recente valutazione endoscopica, la prestazione del test era subottimale”. Inoltre, la correlazione più debole tra sintomi e attività endoscopica nella malattia di Crohn “ha ridotto l’utilità della misurazione dei biomarcatori per dedurre l’attività della malattia nei soggetti con sintomi lievi”.

Ananthakrishnan AN, et al, AGA Clinical Practice Guideline on the Role of Biomarkers for the Management of Crohn’s Disease. Gastroenterology 2023. DOI:https://doi.org/10.1053/j.gastro.2023.09.029
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Autismo, dalla ricerca le speranze per una terapia dei sintomi
Grazie a uno studio realizzato su organoidi cerebrali e ora in fase pre-clinica, un team interdisciplinare di scienziati dell’Università Statale di Milano, di IEO – Istituto Europeo di Oncologia, e di Human Technopole ha scoperto che l’inibizione farmacologica di uno specifico gene (GTF2I) fa regredire i sintomi principali dell’autismo in modelli pre-clinici della sindrome 7Dup, una rara condizione genetica del neurosviluppo che fa parte dei disordini dello spettro autistico.
In Italia i disturbi neuropsichiatrici dell’età evolutiva colpiscono quasi 2 milioni di bambini e ragazzi, tra il 10 e il 20% della popolazione infantile e adolescenziale tra i 0 e i 17 anni, con manifestazioni molto diverse tra loro per tipologia, decorso e prognosi, con incidenza in ascesa. Nonostante l'elevato impatto sociale, medico ed economico, con la prevalenza di ASD (Autism Spectrum Disorders) che ormai supera l’ 1% e un novero ancora molto più ampio se si considerano tutti i disordini del neurosviluppo nel loro complesso, non esistono terapie farmacologiche per i sintomi principali dello spettro autistico (restrizione sociale, deficit nel linguaggio e stereotipie), soprattutto a causa della limitata comprensione dei meccanismi molecolari, a sua volta legata alla mancanza di modelli sperimentali che ricapitolino le alterazioni del neurosviluppo umano in maniera il più possibile autentica e dunque fisiopatologicamente rilevante.
Lo studio, pubblicato su Science Advances, è il frutto del team di ricerca coordinato da Giuseppe Testa, corresponding author dello studio (professore di Biologia Molecolare all’Università degli Studi di Milano, direttore del programma di ricerca in Neurogenomica di Human Technopole, Group Leader all’Istituto Europeo di Oncologia), con primi autori gli scienziati Alejandro Lopez-Tobon, Reinald Shyti, Carlo Emanuele Villa e Cristina Cheroni. “Questo studio rappresenta per i disordini del neurosviluppo, e per l’autismo in particolare, il primo esempio di uno studio che, andando dal meccanismo molecolare ad alta risoluzione in organoidi cerebrali umani fino al modello animale, riesce a stabilire, a livello pre-clinico, la potenziale percorribilità di un trattamento farmacologico dei sintomi principali dell’autismo” spiegano Alejandro Lopez-Tobon e Reinald Shyti.
Lo studio ha utilizzato cellule pluripotenti (iPSC) riprogrammate da pazienti affetti da due diversi disturbi del neurosviluppo causati dall’alterazione di una porzione del cromosoma 7 (ubicato nella regione 7q11.23), ovvero la sindrome di Williams-Beuren (WBS) e la sindrome 7Dup, per generare organoidi cerebrali, complessi modelli cellulari in vitro che riproducono aspetti salienti dello sviluppo del cervello umano a un livello di precisione molecolare non raggiungibile con altre tecniche.
“Grazie all’applicazione di tecnologie ad altissima risoluzione (definite single cell omics) e a innovativi approcci di analisi dei dati, siamo stati in grado di definire l’impatto dell’alterato dosaggio genico della regione 7q11.23 sulla traiettoria di sviluppo nei neuroni della corteccia in termini di specifiche popolazioni di neuroni che, nella condizione 7Dup, seguono una differente traiettoria di maturazione” continuano Carlo Emanuele Villa e Cristina Cheroni. Gli scienziati hanno così scoperto che un gene della regione 7q11.23, chiamato GTF2I e codificante per una proteina con funzione regolatoria su molti altri geni a valle (un cosiddetto attore di trascrizione), era il principale responsabile delle alterazioni di sviluppo neuronale osservate. Avendo precedentemente scoperto il suo meccanismo di azione, hanno selezionato una classe di molecole in grado di inibire la sua attività, sperimentando i risultati sull’organoide.
I risultati sono stati quindi portati alla fase pre-clinica su modelli murini, dove i test comportamentali più validati e standardizzati di socialità (la “preferenza sociale” e la “novità sociale”) hanno confermato che l’aumentato dosaggio di GTF2I altera il comportamento in senso autistico, mentre la somministrazione orale di un farmaco che inibisce l’attività di GTF2I è in grado di far regredire tali sintomi.
“Trattandosi, per lo spettro autistico, di manifestazioni comportamentali che possono essere causate da alterazioni in varie centinaia di geni, la sfida sarà capire se questa opportunità che si inizia ad aprire per la forma 7Dup possa essere auspicabilmente percorribile anche in un sottogruppo più ampio di condizioni autistiche” conclude Giuseppe Testa.

Lopez-Tobon A, et al. GTF2I dosage regulates neuronal differentiation and social behavior in 7q11.23 neurodevelopmental disorders. Science Advances 2023; DOI: 10.1126/sciadv.adh2726
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