Tumore della prostata: possibile ruolo della dieta in prevenzione secondaria
Un paziente con tumore della prostata che segue una dieta ricca di vegetali presenta un rischio inferiore del 52% di progressione del cancro e un rischio minore del 53% di recidiva della neoplasia. È quanto emerge da uno studio statunitense, svolto su oltre 2.000 persone, presentato all’American Society of Clinical Oncology Genitourinary Cancers Symposium (ASCO GU), il più importante meeting internazionale sulle neoplasie genito-urinarie, tenutosi a San Francisco e che ha visto anche la partecipazione della Società Italiana di Uro-Oncologia (SIUrO).
“Lo studio dei colleghi d’Oltreoceano apre nuove possibili prospettive sulle raccomandazioni dietetiche dei malati – sottolinea Sergio Bracarda, Presidente Nazionale SIUrO -. In totale sono più di 564mila gli uomini che in Italia vivono dopo una diagnosi di tumore della prostata e il loro numero è in costante crescita. È dunque una patologia molto diffusa e fermarne il rischio di progressione deve essere una nostra priorità. Servono però ulteriori indagini per verificare in modo più approfondito quale sia la dieta migliore, che deve contemplare un equilibrio tra i vari macronutrienti. Per esempio chi sta affrontando una terapia ormonale rischia di andare incontro ad una forte perdita della massa muscolare. Ha quindi bisogno di un’alimentazione proteica e non solo ricca di vegetali. Più in generale gli stili di vita alimentari sono fondamentali sia prima che dopo una diagnosi di neoplasia genito-urinaria. Diversi studi hanno già evidenziato il ruolo, nell’insorgenza del tumore prostatico, di una dieta particolarmente ricca di grassi saturi e di un eccessivo consumo di carne rossa e latticini. Lo stesso vale nel carcinoma renale dove i troppi grassi d’origine animale possono essere una concausa della patologia. Non sono ancora emerse evidenze scientifiche nette per i tumori testicolari e vescicali. Il nostro consiglio per tutti, pazienti e non, è quello di seguire una dieta il più possibile varia ed equilibrata, con eventuali raccomandazioni specifiche. Al tempo stesso bisogna prestare grande attenzione al controllo del peso corporeo altro fattore di rischio strettamente collegato all’alimentazione”.
All’ASCO GU di San Francisco sono presentate le ultime evidenze scientifiche d’ambito uro-oncologico prodotte dalla ricerca medico-scientifica internazionale. “Ci sono novità importanti sul carcinoma a cellule renali avanzato così come su quelli uroteliale e prostatico – prosegue il dott. Bracarda -. Abbiamo inoltre aggiornamenti di precedenti studi sul tumore della prostata resistente alla castrazione. Si stanno poi affacciando anche nuovi biomarcatori prognostici nonché l’utilizzo dell’intelligenza artificiale multimodale. Innovazione, tecnologia e un costante miglioramento della pratica clinica quotidiana hanno permesso di arrivare a risultati importanti. I trattamenti sono più efficaci e in grado di aumentare le aspettative di vita anche per le forme più gravi ed avanzate di tumore. Infatti gli ultimi dati sottolineano che in Italia abbiamo ottenuto una sopravvivenza a cinque anni dell’oltre l’80% per le quattro principali neoplasie urologiche: prostata, vescica, rene e testicolo. Da qui l’esigenza di affrontare anche altri aspetti come, per esempio, l’alimentazione oppure la conservazione delle capacità sessuali e riproduttive di un paziente”.
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Tumori: ruolo dei farmaci agnostici nel moderno approccio terapeutico
In Europa 25 milioni di persone vivono dopo la diagnosi di tumore (su una popolazione complessiva di circa 500 milioni di abitanti). E in un decennio, dal 1990 al 2000, la probabilità di guarire è aumentata del 10% per la maggior parte delle neoplasie, con incrementi significativi soprattutto per quelle della prostata (dal 22% nel 1990 al 63% nel 2000), della mammella (dal 50% al 66%), del colon-retto (dal 41% al 52% nelle donne e dal 37% al 49% negli uomini) e della tiroide (dal 76% all’87% nelle donne e dal 57% al 70% negli uomini). Complessivamente la probabilità di guarire dopo un tumore, in Europa, è del 51% nelle donne e del 39% negli uomini. Risultati importanti, che si legano al nuovo paradigma della lotta ai tumori che si sta spostando dall’organo colpito dalla malattia all’alterazione molecolare, in grado di predire la sensibilità alle terapie mirate o all’immunoterapia. E i farmaci agnostici sono considerati “jolly”, proprio perché colpiscono in maniera selettiva alcune mutazioni genetiche, indipendentemente dall’organo interessato dalla patologia. Per rendere effettivo il nuovo modello dell’oncologia di precisione devono essere resi operativi, su tutto il territorio, i Molecular Tumor Board (MTB), cioè i team multidisciplinari, indispensabili per interpretare i risultati dei test molecolari e scegliere la terapia migliore. Oggi sono attivi solo una decina di MTB. E deve essere istituita una Piattaforma Nazionale Genomica, per condividere i dati delle analisi molecolari e consentire a tutti i pazienti l’accesso alle terapie innovative. La richiesta viene dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), in una conferenza stampa virtuale, realizzata con il sostegno non condizionato di Bayer.
“L’oncologia è di fronte a profondi mutamenti, che stanno portando all’affermazione di un nuovo modello, definito mutazionale – spiega Giordano Beretta, Presidente Nazionale AIOM e Responsabile Oncologia Medica Humanitas Gavazzeni di Bergamo -. Il punto chiave del nuovo processo è rappresentato dalla profilazione genomica e, quindi, dall’individuazione della mutazione ‘driver’ e del carico mutazionale, che guidano la scelta della terapia, indipendentemente dalla sede del tumore, dall’età e dal sesso del paziente. I farmaci agnostici sono correlati al modello mutazionale: non sono studiati e testati per la loro efficacia su uno specifico tipo di cancro, ma colpiscono selettivamente alcune mutazioni genetiche, che possono essere responsabili di diverse neoplasie, in diversi organi”.
In un’analisi su 500 pazienti con tumori di diverso tipo in stadio avanzato sottoposti a profilazione genomica dal MD Anderson Cancer Center (Houston, USA), nel 30% dei casi è stata riscontrata un’alterazione genetica che può essere bersaglio di trattamenti specifici (definita ‘actionable’). E in uno studio clinico prospettico su 843 persone con tumore avanzato, un’alterazione ‘actionable’ è stata identificata, grazie all’analisi genomica, nel 49% dei pazienti.
“La presenza di alterazioni molecolari ricorrenti nei tumori richiede la profilazione genomica con strumenti diagnostici che forniscano informazioni per tracciare il profilo molecolare delle varie forme tumorali, sia in termini quantitativi che qualitativi – afferma Antonio Russo, Membro Direttivo Nazionale AIOM e Ordinario di Oncologia Medica, DICHIRONS – Università degli Studi di Palermo -. I pazienti candidati al trattamento con farmaci agnostici dovrebbero essere selezionati sulla base della presenza delle alterazioni molecolari, individuate attraverso test agnostici. In particolare, il test di sequenziamento genico di nuova generazione (Next Generation Sequencing, NGS) fornisce la visione più completa di un ampio numero di geni: è in grado di analizzare oltre 300 mutazioni geniche e può individuare le alterazioni molecolari da minime quantità di tessuto. La ricerca con il test NGS può essere effettuata direttamente sul tessuto tumorale asportato oppure su un campione di sangue. In quest’ultimo caso, si parla di ‘biopsia liquida’, una tecnica che consente di studiare, nei fluidi biologici come il sangue, numerose componenti molecolari del tumore, e che può rappresentare uno strumento importante per seguire nel tempo l’evoluzione dinamica della neoplasia”.
“Un esempio paradigmatico di alternazione genica che può essere trattata con farmaci agnostici è quella del gene NTRK – sottolinea Nicola Silvestris, Membro Direttivo Nazionale AIOM e Professore Associato di Oncologia Medica IRCCS Istituto Tumori ‘Giovanni Paolo II’ di Bari – DIMO Università degli Studi di Bari -. I tumori con fusione di NTRK non si limitano a specifici istotipi, ma possono interessare qualsiasi organo. L’identificazione delle neoplasie portatrici di questi riarrangiamenti genici è fondamentale per la selezione dei pazienti che possono beneficiare delle terapie mirate appartenenti alla famiglia degli inibitori della tirosin-chinasi”.
Nel 2020 in Italia sono stimati 377mila nuovi casi di tumore e 3,6 milioni di cittadini vivono dopo la diagnosi. Nella pratica clinica i test agnostici sono utilizzati soprattutto nelle neoplasie dell’apparato gastroenterico, del polmone, nei sarcomi, nei tumori urologici, ginecologici, mammari e del distretto cervico-facciale.
“L’accesso dei pazienti alle terapie agnostiche inizia con l’esecuzione di un test di profilazione genomica, prosegue con l’interpretazione dei dati, per arrivare alla scelta terapeutica – continua Rita Chiari, Membro Direttivo Nazionale AIOM e Direttore Struttura Complessa Oncologia Ospedali Riuniti Padova Sud -. L’estrema complessità della gestione del modello mutazionale in oncologia richiede in maniera imprescindibile l’attivazione dei Molecular Tumor Board (MTB), gruppi interdisciplinari (formati da oncologo medico, anatomopatologo, biologo molecolare, genetista, farmacologo clinico, farmacista ospedaliero, bioinformatico, epidemiologo clinico, bioeticista e rappresentanti dei pazienti), in cui siano integrate molteplici competenze per governare i processi clinici e decisionali di appropriatezza. Oggi in Italia operano solo una decina di MTB, pertanto devono essere implementati, rispondendo a criteri comuni”. “Inoltre – conclude il Presidente Beretta -, un obiettivo cruciale è la condivisione di dati genomici uniformi mediante la creazione di una Piattaforma Nazionale Genomica, che permetterà la produzione di nuove conoscenze e l’accesso dei pazienti alle terapie innovative, consentendo al contempo la valutazione dell’efficacia e dei costi e un maggiore governo della pratica clinica. Esistono oggi varie realtà in cui sono stati attivati database con estrazione di dati strutturati e non-strutturati secondo procedure di interoperatività. La Piattaforma Nazionale condivisa non dovrà sostituire i sistemi informatici già disponibili, né creare un sistema aggiuntivo di centralizzazione dei dati, che rimarranno nella custodia dei laboratori e delle Istituzioni che li hanno generati. La Piattaforma Nazionale dovrà affiancarsi a quelle locali e creare un sistema virtuale di condivisione dei dati genomici basato sulla interoperabilità”.
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Ca del pancreas, identificato un nuovo marcatore utile per orientare meglio le terapie
Uno studio pre-clinico, pubblicato su Gut, dimostra come una proteina, detta PI3K-C2γ, giochi un ruolo chiave nello sviluppo del tumore del pancreas. La ricerca è stata svolta al Centro di Biotecnologie Molecolari “Guido Tarone” dell’Università di Torino, e ha permesso di far luce sui meccanismi di sviluppo di questo tumore fornendo nuovi elementi per massimizzare, in futuro, l’efficacia delle attuali opzioni terapeutiche.
In Italia, ogni anno vengono diagnosticati circa 13.000 nuovi casi di tumore al pancreas e la percentuale di sopravvivenza a 5 anni è meno del 10%. Si prevede che, entro il 2030, il tumore al pancreas diventi la seconda causa di morte oncologica. La gravità e la mancanza di trattamenti efficaci rendono necessari studi per la ricerca di nuove terapie e marcatori che possano aiutare a scegliere il farmaco più efficace. Per poter crescere, le cellule tumorali hanno bisogno di nutrienti e fonti d’energia.
L’aggressività del tumore al pancreas è dovuta alla capacità di adattarsi in condizioni avverse, come ad esempio la scarsità di nutrienti e fonti energetiche, che vengono sfruttate dalle cellule per sopravvivere. Recentemente, sono stati sviluppati dei farmaci che impediscono l’utilizzo di tali nutrienti, come ad esempio la glutammina.
PI3K-C2γ controlla la via di segnalazione intracellulare di mTOR, che regola il metabolismo e la crescita della cellula, e influisce sull’utilizzo della glutammina per favorire la progressione tumorale. Nel tumore del pancreas, la proteina PI3K-C2γ non è presente in circa il 30% dei pazienti, i quali sviluppano una forma maggiormente aggressiva della malattia.
La Dott.ssa Maria Chiara De Santis, primo autore dello studio, ha dimostrato che la perdita di PI3K-C2γ accelera lo sviluppo del tumore, ma allo stesso tempo rende più sensibili a farmaci che colpiscono mTOR e all’utilizzo della glutammina.

De Santis MC, et al. Lysosomal lipid switch sensitises to nutrient deprivation and mTOR targeting in pancreatic cancer. Gut 2022 May 27;gutjnl-2021-325117.
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Ca della mammella: il test genomico può evitare chemioterapie superflue
Il test genomico può evitare la chemioterapia nella maggior parte delle donne in postmenopausa con carcinoma della mammella in stadio iniziale con linfonodi positivi. Lo dimostra lo studio di fase III RxPONDER, presentato in sessione plenaria al “San Antonio Breast Cancer Symposium”, il più importante congresso internazionale dedicato a questa neoplasia, tenutosi dall’8 all’11 dicembre in forma virtuale. La ricerca ha coinvolto 5.083 donne con tumore della mammella in stadio iniziale (II-III), che esprime i recettori estrogenici ma non la proteina HER2 (ER+/HER2-), con coinvolgimento dei linfonodi ascellari (da uno a tre). Circa due terzi erano in postmenopausa. Le pazienti sono state sottoposte al test genomico Oncotype DX, in grado di stabilire, in base a uno specifico punteggio, quanto la neoplasia è aggressiva e la risposta alla chemioterapia. Quasi il 92% (91,9%) delle donne in postmenopausa trattate con la sola terapia ormonale, a 5 anni, era vivo e libero da malattia invasiva, senza differenze significative rispetto alle pazienti che hanno ricevuto anche la chemioterapia (91,6%) dopo l’intervento (sono state considerate le pazienti che esprimevano un punteggio del test pari o inferiore a 25).
“I test genomici sono uno strumento estremamente importante nella scelta del trattamento per le donne che, in base alle caratteristiche anatomopatologiche e cliniche, sono in una sorta di ‘zona grigia’, in una fase in cui non si può includere o escludere con certezza la chemioterapia rispetto alla sola terapia ormonale - afferma Saverio Cinieri, Presidente eletto Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e Direttore Oncologia Medica e Breast Unit dell’Ospedale ‘Perrino’ di Brindisi, che aggiunge: ”I risultati dello studio RxPONDER possono cambiare la pratica clinica e dimostrano che la grande maggioranza delle donne in postmenopausa può evitare chemioterapie inappropriate e ricevere solo la terapia ormonale. Si tratta di un risultato molto importante soprattutto durante la pandemia, perché la chemioterapia rende le pazienti più vulnerabili a complicanze in caso di contagio”.
Lo studio RxPONDER è stato condotto da SWOG Cancer Research Network con il supporto del National Cancer Institute (USA). L’obiettivo era determinare quali pazienti con tumore del seno HR-positivo, HER2-negativo e linfonodi ascellari positivi (da uno a tre) traessero vantaggio dalla chemioterapia e quali invece potessero evitarla in sicurezza e ottenere risultati simili solo con la terapia ormonale. “Ad oggi non erano disponibili dati di un grande studio clinico randomizzato in grado di indirizzare la decisione – spiega Giuseppe Curigliano, Professore di Oncologia Medica all’Università di Milano e Direttore Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano –. Lo studio RxPONDER ha mostrato un effetto diverso della chemioterapia, sulla base dei risultati del test genomico, per le donne in postmenopausa e in premenopausa. I risultati evidenziano che le pazienti in postmenopausa con questo tipo di malattia e con un risultato Recurrence Score, cioè un punteggio del test genomico, pari o inferiore a 25, possono evitare in sicurezza la chemioterapia dopo la chirurgia. Al contrario, lo studio ha dimostrato che le pazienti in premenopausa con tumore del seno con le stesse caratteristiche dovrebbero considerare la chemioterapia adiuvante. Il tasso di sopravvivenza libera da malattia invasiva infatti è migliorato del 5%, passando dall’89% con la sola terapia ormonale al 94,2% aggiungendo la chemioterapia nelle donne in premenopausa”.
Il risultato Recurrence Score, che va da zero a 100, è stato calcolato con il test genomico Oncotype DX, che fornisce la determinazione individualizzata del rischio basata sul genoma nel tumore del seno invasivo in stadio iniziale. Oncotype DX, che è eseguito su campione tumorale proveniente da tessuto chirurgico, è un test multigenico scientificamente validato ed estesamente utilizzato nella pratica clinica. I test genomici sono raccomandati dalle più importanti linee guida internazionali, come quelle della Società Europea di Oncologia Medica (ESMO), della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO), del National Comprehensive Cancer Network (NCCN) e della St. Gallen International Breast Cancer Conference.
“Queste analisi molecolari – conclude Saverio Cinieri – sono in grado di identificare, in alcune tipologie di pazienti, coloro che hanno migliore o peggiore prognosi e maggiore o minore probabilità di trarre beneficio dalla chemioterapia adiuvante o dalla sola terapia ormonale. Ad oggi in Italia, solo la Lombardia, la Toscana e la Provincia Autonoma di Bolzano ne hanno approvato la rimborsabilità, pur trattandosi di una tematica dibattuta a livello regionale, come dimostrano le mozioni a favore della gratuità presentate nei Consigli regionali di Sardegna, Emilia-Romagna e Lazio. L’obiettivo di AIOM è che tutte le Regioni stabiliscano la rimborsabilità dei test, consentendo così a tutte le donne, indipendentemente dalla residenza, di accedervi senza disuguaglianze a livello territoriale. È infatti dimostrato che l’adozione dei test genomici comporta evidenti benefici clinici, migliora la qualità di vita delle pazienti e permette un risparmio economico per il sistema sanitario, evitando chemioterapie inappropriate”.
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Mesotelioma: al via la sperimentazione di una immunoterapia “su misura”
Immunoterapia personalizzata per combattere il mesotelioma pleurico, forma di tumore associata all’esposizione, professionale o ambientale all’amianto. La nuova frontiera è rappresentata dall’immunoterapia a base di cellule dendritiche, ricavate con un prelievo di sangue dal paziente, elaborate in laboratorio attraverso una complessa procedura, addestrate a stimolare la risposta immunitaria e poi reinserite nel corpo del malato. Ogni paziente riceve una dose “su misura” di cellule dendritiche stimolate in laboratorio. Per sperimentare questo nuovo approccio, parte uno studio europeo che vede, come unico centro italiano coinvolto, la Clinica Oncologica dell’Università Politecnica delle Marche – Ospedali Riuniti di Ancona. Lo studio si chiama DENIM (Dendritic Cell-based immunotherapy to treat Malignant Mesothelioma) ed è svolto in 6 strutture europee: oltre a quella marchigiana, l’Erasmus University Medical Center di Rotterdam (centro coordinatore), il Netherlands Cancer Institute di Amsterdam, lo University Hospital Antwerp (UZA) in Belgio, l’Università di Leicester nel Regno Unito e il Centre Hospitalier Régional Universitaire di Lille in Francia. Saranno coinvolti 230 pazienti, di cui 30 ad Ancona, e il termine della sperimentazione è previsto a dicembre 2021. Nel nostro Paese, nel 2019, sono stati stimati 1.800 nuovi casi di mesotelioma (1.300 uomini e 500 donne).
“L’immunoterapia a base di cellule dendritiche si distingue dall’immunoterapia utilizzata finora con successo in neoplasie come il melanoma, il tumore del polmone e del rene, perché parte dal paziente e ritorna al malato passando attraverso una complessa procedura in laboratorio. Per questo, possiamo definirla più moderna e precisa – afferma la Prof.ssa Rossana Berardi, Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università Politecnica delle Marche e Direttore della Clinica Oncologica Ospedali Riuniti di Ancona -. Ad oggi non esiste una terapia curativa per il mesotelioma. A differenza di altri tumori solidi, anche in caso di diagnosi precoce, il trattamento chirurgico non ha impatto sulla sopravvivenza a causa dell’elevato tasso di recidive locali. Pertanto, nella maggior parte dei casi, il primo approccio terapeutico è di tipo farmacologico tramite chemioterapia. Dal 2004, il regime chemioterapico di combinazione (cisplatino/carboplatino con l’antifolato pemetrexed) è considerato lo standard di cura in prima linea ad intento palliativo. Ad oggi, non ci sono altri regimi terapeutici approvati. Non vi sono neppure standard terapeutici per il trattamento di mantenimento della risposta ottenuta con la chemioterapia in prima linea, né standard di cure approvati nelle linee successive. Lo studio DENIM nasce, quindi, per i pazienti che rispondono alla chemioterapia ed è finalizzato a modulare la risposta immunitaria per mantenere e consolidare i benefici ottenuti”.
Si tratta di uno studio randomizzato, in aperto, di fase 2/3 in pazienti adulti affetti da mesotelioma pleurico e che hanno ottenuto controllo di malattia con la chemioterapia di prima linea. È previsto il confronto di due opzioni di trattamento dopo la chemioterapia standard: immunoterapia a base di cellule dendritiche insieme alla migliore terapia di supporto rispetto alla sola terapia di supporto.
“I pazienti nel braccio sperimentale sono sottoposti a leucaferesi – sottolinea la Prof.ssa Berardi -. È la procedura che permette di separare e raccogliere globuli bianchi dal sangue periferico, per ottenere cellule dendritiche. Le cellule dendritiche immature sono poi esposte a una miscela di lisati da 5 linee di cellule tumorali di mesotelioma. In questo modo sono stimolate fuori dal microambiente tumorale, cioè fuori dal corpo, per poi essere ‘reinserite’ nel paziente per via endovenosa”. La valutazione e il trattamento dei pazienti verranno effettuati in Ancona, con la piena collaborazione tra la Clinica Oncologica, la Clinica Ematologica diretta dal prof. Attilio Olivieri, la Farmacia Ospedaliera diretta dalla dott.ssa Adriana Pompilio, il Laboratorio Analisi diretto dal dott. Marco Moretti e la sezione di Istologia diretta dalla prof.ssa Monica Mattioli Belmonte Cima, mentre le procedure di leucaferesi e di preparazione della immunoterapia a base di cellule dendritiche verranno realizzate presso l’Erasmus University Medical Center di Rotterdam. Il protocollo si inserisce nell’ambito di progettualità di ricerca già attive in collaborazione anche con la prof.ssa Lory Santarelli della Medicina del Lavoro dell’Università Politecnica delle Marche ed il suo team.
“Come Ospedali Riuniti siamo fieri di essere, grazie alla magistrale regia della Prof.ssa Rossana Berardi, la struttura sanitaria nella quale si è coordinato il protocollo assistenziale del mesotelioma pleurico, una delle poche malattie per le quali è evidente la correlazione con una eziologia specifica – spiega il Dott. Michele Caporossi, Direttore Generale degli Ospedali Riuniti di Ancona -. Oltre ai contenuti assistenziali e di ricerca vogliamo farne strumento di diffusione di buone pratiche di prevenzione a livello ambientale”.
Nel nostro Paese, la sopravvivenza a 5 anni è pari all’8,5%. L’età media alla diagnosi è di 70 anni, senza differenze di genere. Più del 90% dei casi di mesotelioma registrati è a carico della pleura, i restanti interessano principalmente il peritoneo e il pericardio. L’Italia è uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie correlate all’amianto. Questa condizione è la conseguenza dell’ampio utilizzo di questo minerale, quantificabile a partire dal dato di 3.748.550 tonnellate prodotte nel nostro Paese nel periodo dal 1945 al 1992 e 1.900.885 tonnellate importate nella stessa finestra temporale. La produzione, lavorazione e vendita di amianto sono vietate in Italia dal 1992.
“È essenziale la sorveglianza sulle persone più esposte, cioè gli ex lavoratori degli stabilimenti che producevano o trattavano asbesto, perché la malattia ha tempi di latenza molto lunghi, fino a oltre 40 anni – conclude la Prof.ssa Berardi -. Oggi la grande attenzione al tema delle malattie asbesto-correlate nel nostro Paese, a quasi 30 anni dal bando di ogni forma di estrazione, lavorazione, importazione e commercio di amianto, deriva dal fatto che è in corso la massima incidenza di mesoteliomi per l’intenso uso del materiale dal secondo dopoguerra fino agli anni ’80 e per la lunga latenza della malattia. In Italia, è attivo un efficace sistema nazionale di sorveglianza attraverso la segnalazione obbligatoria, i cui dati confluiscono nel Registro Nazionale Mesoteliomi (ReNaM), uno strumento molto importante per fotografare l’incidenza della malattia. Nelle Marche, nel periodo 1993-2015, sono stati registrati 537 casi di mesotelioma pleurico e Ancona è una città direttamente interessata dal problema per la presenza di cantieri navali, i cui lavoratori, in passato, sono stati esposti all’amianto anche nelle attività di riparazione e demolizione spesso in spazi chiusi. I malati di oggi sono la conseguenza dell’esposizione che risale anche a 40 anni fa e che domani auspicabilmente non vedremo grazie alle tante azioni di prevenzione messe in campo negli ultimi 30 anni”.
“Lo studio europeo ‘DENIM’, che vede come unico centro italiano coinvolto la Clinica Oncologica dell’Università Politecnica delle Marche – Ospedali Riuniti di Ancona, dimostra come la ricerca scientifica sia fortemente legata allo sviluppo e al benessere di tutti, motore per il progresso dell’umanità – afferma il Prof. Gian Luca Gregori, Rettore Università Politecnica delle Marche (UNIVPM) -. La sperimentazione, inoltre, vede coinvolte 6 strutture europee, oltre a quella marchigiana, perché gli sviluppi scientifici nascono e migliorano la vita delle persone, grazie alla condivisione delle conoscenze e alla collaborazione scientifica nazionale e i Informazioni in merito al protocollo potranno essere richieste al team di professionisti (dott.ssa Zelmira Ballatore, medico referente e dott.ssa Alessandra Lucarelli e dott.ssa Michela Burattini data manager) che seguono il protocollo presso la Clinica Oncologica di Ancona (email: clinicaoncologica@ospedaliriuniti.marche.it).”
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